Lionardo Vigo

Sul teatro di Adernò, 1846

Un posto non secondario occupa, nel panorama della cultura letteraria siciliana del sec. XIX, la figura di Lionardo Vigo. Nato ad Acireale nel 1799, si distinse subito come poeta e scrittore, nonché come profondo conoscitore della letteratura popolare siciliana. Nella sua cittadina ricoprì diverse cariche importanti: divenne tra i più stimati soci dell’Accademia degli Zelanti, per il cui rinnovamento egli si adoperò; fu direttore della Regia Scuola Complementare, alla quale fu poi dato il suo nome.
Nel 1860, appena realizzata l’unità italiana, tra i delegati a rappresentare la cittadina di Acireale per rendere omaggio al nuovo re d’Italia a Palermo, fu scelto Lionardo Vigo, sebbene egli fosse stato un sostenitore dell’autonomia siciliana, come del resto si può intuire leggendo la sua importante opera dal titolo “Ruggiero”, poema epico pubblicato nel 1865.
Il testo che qui viene presentato è un brano tratto da uno scritto del Vigo apparso su “Scilla e Cariddi”, un periodico culturale, nel 1846. Questa descrizione faceva parte di un testo più ampio nel quale l’autore scrisse delle sue impressioni avute durante un viaggio compiuto da Acireale a Bronte; il brano contiene interessanti informazioni sul teatro di Adernò, come ad esempio sulle varie scene dipinte, sulla volta decorata della sala e sul sipario. Nella sua città natale si spense l’illustre scrittore ottantenne nel 1879.

Teatro Adernò
Il teatro di Adernò in una foto dei primi anni del ‘900

 “E gli adornesi, come ogni altro popolo turbinato dall’onda dell’opinione, vollero un comunale teatro; e a di loro preghiera l’architetto Vincenzo Costa anch’egli adornese, alzava questo, che a visitare mi trassi col sindaco Pietro Sidoti, l’ab. Calleri, il barone Mineo ed altri colti signori di quella terra ospitale. Sorge esso nel lato orientale della città, con l’ingresso volto a ponente: allor che noi vi giugemmo il sole cadeva, e dalle dischiuse porte vi gettava tanta copia di luce da poterlo disaminare da parte a parte, e meglio di come se fosse stato rischiarato dall’arte. Il Sidoti con sapere e cortesia singolare notava i vantaggi della forma ellittica da essi prescelta; notava essere larga 36 palmi la bocca del palco, e questo lungo 56, e capace di esserlo il doppio, largo 64 oltre lo spazio addetto a servigio degli attori; avere 44 logge partite in tre ordini, e ciascheduna di palmi 8 di quadro, alta 9; da tutte godersi la scena come se di fronte; la platea esser lunga 52 palmi, larga 46; bellissime e comode le scalinate e i corrridoi, che conducono alle logge.
Percorso il teatro ci riducemmo a mezzo la platea, per ammirare le scene fattura di Giuseppe Distefano e il sipario di Giuseppe Rapisarda, entrambi catanesi: (…) tutti alla fine si ridussero nella platea, da varii siti considerando le scene, che ad una ad una ci venivano offerte bellamente alla vista. Il teatro ha sette vedute complete, altre di fronte altre dipinte sulla diagonale, cioè piazza, reggia, bosco, sotteraneo, camera nobile, da commedia, rustica. Distefano inoltre arricchi’ di fregi e arabeschi l’arco del palco (…). E ne volendo ritrarre con l’immaginazione a secoli meno corrotti, finse essere il teatro a cielo aperto, prescegliendo il sorgere di un estiva aurora, per cui la volta ti offre l’aria del primo mattino in sullo orire del giorno, splendida di lampi di porpora, che ne dirada l’azzurro; e questo ingegnoso trovato verra’ agli occhi più verosimile la sera per lo magico effetto della luminiera, che dall’ alto dipende.
(…) Eravamo tutti Siciliani, ma di diversi municipi dell’isola; e vago io di scrutare l’altrui giudizio, ne li richiesi pregandoli di franchezza; e quei gentili notarono soltanto non essere la stupenda opera proporzionata alla città. Ed in vero è questa la sola pecca di cui puo’ gravarsi; ma chi riflette essere civili gli adornesi, e progressivo il loro volgersi a sapienza; non difettare di pingue reddito il comune, crescere diuturnamente la popolazione; traversarlo la consolare, che congiunge messina, Catania, palermo, anzi ivi rannodarsi le braccia della strada delle marine, e di quella delle montagne, che varca Mongibello; sostenere e alimentare Adernò molti conventi e reclusorj e collegi di donne e monasterj, fra cui quello di S. Lucia capace per ricchezza ed ampiezza di contenere centinaia di giurate vergini; aver edificato dalle fondamenta e mantenere fiorente un casino, giovial ritrovo di costumate gentildonne, e cavalieri e frati e monaci e sacerdoti, fatto notevole ed unico in tutta Sicilia, e forse altrove; avere un amenissimo passeggio fra i di cui lunghi viali, ombreggiati da folti alberi, s’innalza in ogni anno nè mesi estivi una decente orchestra, e i giovani filarmonici di quel comune intertengono con diletto sino alle tarde ore della sera la gente vaga di ascoltare e applaudire l’armonico concento che anima a’ nostri giorni i teatri più magnifici dell’ europa; si’ chiunque considera questi elementi statistici dell’attuale Adernò, non potrà esser nimichevole giudice del longanime sidoti, il quale ha murato un teatro, che è un sesto e forse meno di quel colossale monastero. Ma sonvi parecchie città più popolate e doviziose, le quali o teatro non hanno, o invece così chiamano una topinaja; è pur vero per nostra vergogna! Ma Adernò ha vinto gli ostacoli morali, che tuttora abbrutiscono quelle tali città, ostacoli, che rendono effimero e inattivo l’avviamento dato ovunque all’universal prosperare; (…).
E tu egregio P. Sidoti, ti godi le benedizioni di una città intera, e di quanti riveriscono l’inconsueto merito; la riconoscenza è la più difficile virtù dell’uomo, ed ella è retaggio di Adernò, ove gareggiasi nel pubblico encomio a te tributato; siegui a beneficare codesta terra d’illustri ricordanze, e se qualche liliputto ti noja nella generosa carriera, sovvienti, che chiunque giova a un paese, ad una nazione, all’umanità, deve operare il bene per amore del bene, e per lo solo smisurato amore del bene patire il martirio del benefizio, che è la guerra dè farisei, or segreta, or aperta, sempre vile, calunniosa, turpe, pari alle abbiette anime di quei tristi, che anno il cuor di giuda, e il volto di giovanni , i quali Dio pose come le spine attorno alla corolla della rosa, che si avventano come cani rabbiosi all’utile sapiente, ne rodono le calcagna, non aggiungendo al luminoso suo fronte redimito di alloro, e inetti a creare la celeste immagine della venere o dell’ appoline, la deturpano col martello; e inabili ad estollere il tempio di Efeso, van superbi del vandalico trionfo di averlo bruciato”.
( Lionardo Vigo, Sul teatro di Adernò, 1846 )